Recovery Plan: cosa c'è e cosa manca nella nuova bozza italiana
Il
12 gennaio il Governo italiano ha approvato in Consiglio dei ministri la bozza
del Piano nazionale di rilancio e resilienza.
La
bozza è decisamente migliorata rispetto alla prima bozza circolata a dicembre
dello scorso anno.
È
stato eliminato ogni riferimento alla governance, si tratta di un passo avanti
importante, anche perché quanto previsto nella precedente bozza non era
funzionale ed usurpava i ministeri del loro potere e della loro attività.
In
ogni caso una governance ci dovrà essere. Che tipo di governance ci sarà ancora
non è dato saperlo. Gli altri Paesi l’hanno già prevista, noi ancora no.
Il
piano approvato il 12 gennaio inoltre prevede un’integrazione e un
coordinamento del PNRR con le risorse per le politiche di coesione europee e
nazionali in corso di programmazione in modo da massimizzare e migliorare
l’allocazione delle risorse europee nel loro insieme.
Questo
è punto importante perché è bene ribadire che il Recovery Fund non può
finanziare interventi o progetti che possono essere finanziati con altri fondi
UE.
Viene inoltre incrementata la dimensione e l’intensità degli interventi nel
Mezzogiorno.
Su questo le Regioni sono chiamati in causa, queste infatti dovranno presentare
una programmazione dei Fondi europei coerente con il PNRR in modo da allocare
in maniera efficiente le risorse, evitando così sprechi e ritardi.
Il PNRR si articola in 6 missioni, queste si raggruppano a loro volta in 16 componenti funzionali a realizzare gli obiettivi economico – sociali definiti nella strategia del Governo italiano.
Le 16 componenti si
articolano in 47 linee di intervento. Per ogni missione sono indicate le
riforme necessarie per una più efficacia realizzazione del piano.
Un’altra novità è
rappresentata dalle risorse e dalla diversa distribuzione tra le varie missioni
di quest’ultime.
Nella precedente bozza il
totale delle risorse era pari a 196 miliardi di euro, nella nuova invece le
risorse sono 223 miliardi. Questa differenza sta nel fatto che ai 196 miliardi
si aggiungono i fondi ReactUE (14 miliardi, 2/3 andranno al Mezzogiorno) e 13
miliardi frutto di alcune opere che saranno realizzate in collaborazione con il
privato.
Entrando
più nel dettaglio, nel nuovo PNRR diminuisce la voce incentivi (21%) mentre
viene incrementata la voce investimenti (70%).
Le
risorse serviranno per finanziare 144.2 miliardi di euro “nuovi progetti”
e 65,7 miliardi di “progetti in essere”.
La
scelta di finanziare “progetti in essere” è giustificata all’interno del
piano a causa del forte indebitamento del nostro Paese. Su questo si dà una
risposta che nella precedente bozza non era stata data.
Se
poi andiamo nel dettaglio delle singole voci delle missioni anche qui ci sono
diversi cambiamenti rispetto alla bozza precedente.
Gli
aumenti riguardano le missioni: Sanità (+10,7 miliardi), inclusione e coesione
(+10,5 miliardi), istruzione e ricerca (+9,3) e infrastrutture per la mobilità
sostenibile (+4,7 miliardi). Diminuiscono invece le risorse per la transizione
ecologica e per la digitalizzazione e l’innovazione.
Il piano nel complesso è
nettamente migliore del precedente. L’impostazione è più coerente con le
richieste della Commissione; le missioni, le componenti e le relative linee di
intervento sono decisamente più precise e puntuali.
Ma
nonostante lo sforzo compiuto dal Governo anche il nuovo piano ha bisogno di un
ulteriore revisione e di qualche integrazione e specificazione.
In
questa bozza sono presenti sia il piano di riforme per ogni missione, sia le
somme e gli interventi per ogni componente.
Le
riforme rivestono un ruolo di primo piano nel piano perché ad esse sono
collegati anche i finanziamenti, rappresentano una delle condizionalità che l’Europa
chiede agli Stati membri per avere le risorse.Sul
capitolo riforme, tolta la parte dedicata alla riforma della giustizia, il
resto delle riforme è solo tratteggiato e liquidato in qualche riga.
Prendiamo
la missione 4, dedicata ad istruzione e ricerca.
Si
tratta di una missione importante e fondamentale per lo sviluppo e il rilancio
della competitività. A questa sono dedicate 28,5 miliardi di euro divisi in:
Potenziamento delle competenze e diritto allo studio (16,7 miliardi) e dalla
Ricerca all’impresa (11,7 miliardi).
All’interno della
missione sono previsti una serie di interventi meritevoli ed apprezzabilissimi.
Ma stiamo parlando di una materia concorrente, senza un intervento coordinato
con le Regioni, gli interventi rischiano di rivelarsi inefficaci e sono noti a
tutti (o almeno dovrebbe essere) i limiti del sistema di R&S italiano che
nel piano non vengono menzionati.
Come viene giustamente
ricordato la spesa italiana in R&S è pari all’1,4% del Pil (0,5% da parte
del pubblico, 0,9% da parte del privato). Siamo al di sotto della media OCSE
dove il livello di spesa tocca il 2,4%.
Sul
tema di recente è stata avanzata una proposta da parte del fisico Ugo Amaldi,
il c.d Piano Amaldi.
Il
Piano propone l’aumento, in sei anni, dei fondi per la ricerca pubblica,
arrivando a raggiungere l’1,1% del Pil (oggi è lo 0,5%).
Ma ad oggi, nonostante la
menzione del Piano Amaldi all’interno della nuova bozza, gli stanziamenti dedicati
sono lontani da quanto richiesto dal fisico e dal resto della comunità
scientifica.
Altro tema è quello del
trasferimento tecnologico. Il sistema italiano di trasferimento tecnologico
negli anni ha subito una serie di mutamenti e interventi migliorativi, ma
rimane ancora molto frastagliato e lontano dalle prestazioni degli altri Paesi
europei.
Nella nuova bozza sono
stati inseriti anche interventi e idee innovative, ma su questo tema se non si
coinvolgono le Regioni, le Università e gli Enti Pubblici di Ricerca si rischia
di creare strutture inutili o doppioni, oltre che sprecare risorse e
finanziamenti.
Il modello del Fraunhofer tedesco menzionato nel piano può essere un modello ma
è bene ricordare che non basta copiare o importare modelli di successo.
Le politiche si costruiscono con i singoli attori e in base alle peculiarità e
specificità dei contesti territoriali in cui queste vengono poi implementate.
Su questo tema, qualche giorno fa, Federico Ronchetti ha spiegato bene come
funziona il modello tedesco e cosa dovrebbe fare l’Italia per migliorare la
propria azione e i propri interventi.
Il nuovo Piano Nazionale
della Ricerca 2021 – 2027, del quale ancora non si conoscono i contenuti, dovrebbe avere tra gli obiettivi: una riforma del sistema ricerca e del trasferimento
tecnologico, un maggiore coordinamento con le Regioni, le Università e le
istituzioni di ricerca e un’integrazione degli investimenti nelle nuove
direttrici di sviluppo, puntando a creare così in Italia nuove catene del
valore.
Come hanno ricordato in
un recente articolo Battiston e altri “quello che purtroppo manca nel PNRR è
una strategia sulla ricerca curiosity – driven” e “una rigorosa peer
review” dei progetti: un’analisi puntuale che miri al miglioramento dei
progetti italiani per Next Generation EU anche attraverso l’introduzione di un
sistema di misurazione e valutazione competitiva delle proposte a ogni segmento”.
Alla voce ricerca e
innovazione è bene impiegare più risorse e razionalizzare e coordinare gli
interventi con gli strumenti e gli attori attuali.
Un’attenzione
particolare merita poi la missione dedicata alle infrastrutture.
Come è noto uno dei problemi principali del sistema infrastrutturale italiano riguarda
il Mezzogiorno il quale ha buona parte del proprio territorio fuori dalla
direttrice dell’AV, un sistema stradale carente ed arretrato, e un sistema
portuale, con forti capacità tutt’ora inespresse, ma sottoutilizzato.
Perché non uniformare l’intera rete AV da Torino a Reggio Calabria?
Non è previsto nessun
intervento di ammodernamento e messa in sicurezza sull’A2.
La Statale 106 Jonica non è nemmeno
menzionata. Come pensiamo di collegare la dorsale jonica con quella adriatica
senza questo intervento sulla rete stradale?
Si parla di trasporti intermodali, ma non c’è solo un breve cenno al collegamento tra
stazioni – aeroporti – porti e i porti minori del Mezzogiorno vengono
solo menzionati.
Sulla carta le intenzioni sono buone, così come le premesse, ma poi mancano i
progetti o gli interventi. Su questo gli enti locali, le Regioni meridionali, ma
anche i parlamentari dovrebbero agire in maniera unitaria e coordinata e
chiedere interventi e risorse puntuali e una maggiore attenzione a determinate
aree.
Per
finire, il tema delle aree interne. All’indomani dello scoppio della pandemia e
dell’affermarsi dello smart working le aree interne hanno acquisito una
centralità maggiore all’interno del dibattito nazionale. Fino ad un anno fa
questo era un tema che interessava gli addetti ai lavori e qualche inguaribile
romantico, oggi lo ritroviamo anche all’interno del piano italiano.
Vengono
previsti interventi per 1,5 miliardi di euro a favore della Strategia Nazionale
per le Aree Interne. Si tratta di un riconoscimento rilevante per l’Italia dei
margini e della ruralità.
Ma come viene ricordato
nella bozza è opportuno “migliorare il livello e la qualità dei servizi
scolastici, sanitari e di mobilità, un potenziamento dell’infrastrutturazione
sociale, ambientale e digitale…, nonché misure a sostegno dell’imprenditoria giovanile,
… e del reinsediamento abitativo e produttivo”.
Questo è il tema dei
temi, perché non basta aumentare le risorse ma bisogna verificare nei vari
territori interni e rurali qual è il livello dei servizi essenziali, i
collegamenti tra paesi e tra i paesi e il centro di interessi principale.
Perché ci sono aree interne e aree interne. Su questo punto serve un maggiore
coordinamento tra questa linea intervento e le altre, oltre che con la
programmazione dei fondi UE affidata alle Regioni.
Senza si rischia di sprecare anche questa occasione che potrebbe portare
diversi borghi ad essere ripopolati e riabitati.
Dunque, il Piano nel suo
insieme è decisamente migliorato ma sarà necessaria un ulteriore revisione. Serve
maggiore concretezza, più precisione nella declinazione degli interventi e
degli obiettivi, oltre che ad un rafforzamento del piano delle riforme.
Non basta fotografare lo
stato attuale del Paese. Bisogna individuare quali obiettivi vogliamo
raggiungere, che impatto sociale, ambientale e culturale dovranno avere queste
misure. Serve una visione del Paese che sarà.
Non possiamo e non
dobbiamo perdere questa occasione: è in ballo il futuro e il rilancio
dell’Italia, dell’Europa e delle nuove generazioni.
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